Postille arcadiche

Interpretazioni dell’arcadia

È possibile ed augurabile un’opera critico-storica che studi l’Arcadia nelle sue origini e nel suo svolgimento culturale e letterario, nella sua continuità e nelle sue fasi, saldando insieme, intorno ad un centrale sviluppo di poetica, i contributi di pensiero estetico e critico, i precisi e vari atteggiamenti di gusto, i risultati artistici delle varie personalità collaboranti alla «riforma» e all’affermazione del «buon gusto», tra fine Seicento e prima metà del Settecento?

Mi pare che la risposta debba essere affermativa, specie pensando a quella valutazione di singoli risultati personali e delle precise «maniere» arcadiche che appare, nella piú recente valida storiografia letteraria, meno approfondita (se si tolgono alcuni nitidi ritratti del Croce e alcuni veloci ed efficaci profili del Fubini nella pagine di Arcadia e Illuminismo nel volume dal Muratori al Baretti – che del resto già costituiscono un rapido, ma intenso quadro storico-critico dell’epoca arcadica –) rispetto alle interpretazioni del fenomeno arcadico nel suo contributo alla storia del pensiero estetico e critico (studiata specialmente nel citato volume del Fubini: il capitolo sulle Osservazioni del Muratori e il ritratto del Muratori), nelle sue caratteristiche storiche di letteraria espressione della nuova cultura razionalistica europea (donde le nuove esigenze di chiarezza e organicità, di attenzione ai mezzi espressivi e di uno studio dei classici e di una ripresa della tradizione) su cui Croce e Fubini han cosí utilmente insistito, in contrasto con la tesi calcaterriana che piú fortemente puntava sulla continuità dello svolgimento barocco-arcadico italiano.

Si tratterebbe naturalmente di un lavoro di difficile e delicato impegno, capace di far confluire in un’unica linea dinamica i vari aspetti della cultura e della letteratura arcadica, facendovi vivere le singole personalità e i vari gruppi nei loro elementi comuni e peculiari, recuperando nella folta selva dei rimatori arcadici le voci piú sicure e ovviamente utilizzando i validi risultati già ricordati per un quadro piú vasto, piú graduato e piú compiuto.

Essenziale poi sarebbe comunque il rifiuto dell’esaltazione agiografica, della totale rivendicazione dell’Arcadia da contrapporre alle vecchie totali condanne e dell’appiattimento di quel periodo vario e mobile in costanti troppe generiche, e, peggio, applicabili (se non se ne rilevino le particolari motivazioni e funzioni) ad altre fasi della letteratura settecentesca a cui l’Arcadia fu scuola e base, ma che si distinguono per altre effettive componenti storiche, culturali, artistiche anche quando riprendono esigenze e moduli arcadici intimamente trasformandoli.

Non mi sembra che a tale compito corrispondano l’impostazione generale dell’opera del Moncallero[1], le qualità dello studioso e i risultati di questo primo volume, pur cosí volenteroso e ricco di notizie. Anzitutto, quale funzione e significato potranno avere, dopo il secondo volume annunciato, Poesia d’Arcadia (in cui «si vedrà in qual misura il canto dei pastori arcadi sia stato intonato alla premessa dei compastori teorici»), altri due volumi intitolati Antiarcadia e Ciò che è vivo dell’Arcadia?

E se per l’Antiarcadia si può pensare ad uno studio delle reazioni antiarcadiche del secondo Settecento (o anche della posizione polemica romantica contro l’Arcadia come malattia di idilliaca musicale evasione e come gesuitica evirazione della letteratura italiana?) che comunque esorbiterebbe da uno studio del pensiero arcadico nel periodo della sua vera vitalità, Ciò che è vivo dell’Arcadia fa pensare ad una agiografica rivendicazione, già anticipata in questo primo volume nei molti spunti elogiativi e retorici, che volgono il giusto apprezzamento delle «onorate fatiche» degli Arcadi (come le chiamava il Carrer), della loro opera di ripresa della tradizione e della attenzione all’organismo letterario, del valore del pensiero estetico e critico di un Gravina o di un Muratori, verso il pericoloso canone di netti e totali «precorrimenti» romantici e moderni.

I quali non tengono comunque conto dello svolgimento e dei sostanziali arricchimenti e rinnovamenti persin rivoluzionari del secondo Settecento e sembrano presentare come frutto arcadico tout court persin la poetica manzoniana del vero, utile, interessante, o esaltano agiograficamente i meriti nazionali e patriottici della polemica arcadica antifrancese («in quella polemica c’era il nazionalismo e il patriottismo di chi patria non aveva e voleva averla e ne proclamava, anche se indirettamente affermando le benemerenze di una stirpe, il diritto a indipendenza e libertà, nel Seicento non sentita se non sporadicamente») e del classicismo arcadico interpretato troppo enfaticamente come ripresa di un «eterno» classicismo connaturale alla «romanità» del popolo italiano: che «non discendendo da semibarbari come altre genti di Europa, ma da cittadini di Roma o riscattato dagli allogeni attraverso il sistema feudale per virtú dei Comuni e delle aborigene Signorie e delle Repubbliche democratiche, porta vivo il ricordo e sente potente l’influsso del diritto e della lingua dell’antica Roma ecc. ecc.».

Proprio il senso e il limite dei «precorrimenti», del diverso significato che parole e temi assumono nelle diverse fasi culturali, appaiono del tutto insufficienti in questo libro, a cui mancano insieme una sicura capacità di scelta e di discussione sulla tematica critica contemporanea (caratteristico il capitolo sul Seicento che accumula contrastanti citazioni critiche senza giungere né ad una scelta né ad una eventuale sintesi superiore né alla chiara distinzione del mito polemico-pragmatico antibarocco di Arcadia e di una interpretazione moderna della poetica barocca) e una precisa destinazione dello studio del Gravina, del Muratori, del Vico, del Maffei, del Martello, dell’Orsi.

Perché mentre lo studio delle loro posizioni non porta certo ad una loro nuova individuazione in sede di pensiero estetico, esso non è poi utilizzato chiaramente come valutazione del loro aspetto di proposta pragmatica di poetica. Ché allora, fra l’altro, sarebbe stato ben necessario studiare accuratamente anche la posizione del Crescimbeni (comunque poco compresa anche nella sua scarsissima utilizzazione, se il Moncallero può considerare l’onore reso al pindarico Chiabrera come una prova di «ripiegamento del Crescimbeni verso idee del Gravina»), teoricamente povera, ma per la poetica della «riforma del buon gusto» piú importante di quella del grandissimo Vico la cui efficacia sul gusto poetico è tanto piú tarda.

In realtà l’autore si preoccupa troppo esclusivamente di verificare – in un esame che non è di poetica e non di pensiero estetico – la presenza nei «teorici» di Arcadia della premessa antisecentista e classicista. Motivi indubbiamente presenti e fondamentali nella generale posizione arcadica: collegati dal Croce all’istanza razionalistica (che in questo volume è ricordata, ma lasciata praticamente inoperosa, come quella «sperimentale» già rilevata dal Maugain) e cosí acutamente svolti e unificati dal Fubini, che tanta importanza ha dato al classicismo arcadico anche come ideale filtro depuratore di elementi di relativa continuità barocca (gusto dell’immaginoso e del cantabile) e che pure ha discusso e limitato l’estensione e il valore di quel procedimento dell’«autorizzamento» classico troppo generalmente applicato dal Toffanin e ben poco precisato dal Moncallero.

Ma questi motivi, mentre non vengono studiati nella loro prima affermazione negli scrittori di secondo Seicento (un Menzini o un Maggi) nella loro origine piú pratica che teorica, finiscono poi per essere ridotti ad una monotona e a volte sforzata ripetizione della loro grezza presenza, privi come sono delle varie giustificazioni e accentuazioni (nonché dell’appoggio che poteva venire dalla indagine sui modi di studio e traduzione dei classici, dall’attenzione alle teorie e alla pratica delle arti figurative dello stesso periodo) che essi hanno nelle diverse interpretazioni della riforma arcadica e nelle diverse fasi in cui si colloca, ad esempio, un Martello rispetto a Gravina o Muratori.

E proprio il Martello può esser l’esempio concreto (a parte la difficoltà di collocarlo fra i «teorici» e vicino a un Vico mentre la sua posizione è quanto mai pragmatica e polemica) di come occorresse meglio caratterizzare le «premesse» antisecentista e classicista in condizioni personali e storiche particolari. In questo caso, in una fase piú avanzata del gusto arcadico rispetto a quella graviniano-crescimbeniana e in una ricchezza tanto maggiore di fermenti culturali e socievoli nuovi, oltreché in un personale modo di reazione dell’estroso, vivacissimo scrittore, sia al generale antisecentismo e antimarinismo (con ragioni solo in parte notate e comunque non interpretate dal Moncallero), sia al classicismo piú rigido, anche in campo teatrale (vedi ,ad esempio, l’introduzione al III vol. del Teatro italiano).

Né per suffragare ad ogni costo il classicismo «vero» degli arcadi (contro lo «pseudo classicismo» francese) occorre troppo ridurre l’apertura del Martello e di altri alla cultura francese: della quale bisogna ben ricordare come nella stessa polemica Orsi-Bouhours gli italiani sentissero e utilizzassero le offerte di ragionamento chiaro e sistematico, lo stimolo dei rimproveri e delle condanne per una migliore coscienza delle proprie posizioni e del proprio gusto.

Cosí, nella rigida verifica del «benemerito» antisecentismo e del «vero» classicismo nei teorici arcadici, il Moncallero perde di vista, nella descrizione delle loro posizioni, momenti caratteristici delle loro preoccupazioni teorico-pragmatiche, come avviene nei riguardi della varia interpretazione del petrarchismo piú ortodosso o illeggiadrito, sulla questione della rima e del verso sciolto, o nel caso particolare del Manfredi e della sua lettera all’Orsi, di cui non si rileva l’essenziale motivo della distinzione fra stile poetico e stile prosastico. Motivo che è poi fondamentale in quella polemica del Maffei a proposito del Maggi, sulla quale il Moncallero sorvola per immergersi tutto nel ribadire il classicismo, viceversa assai moderato, del Maffei.

E cosí questi vien ricondotto eccessivamente alla posizione graviniana (mentre la posizione del Discorso di apertura della colonia di Verona rappresenta un tentativo di mediazione fra la posizione del Gravina e quella del Crescimbeni) ed esaltato, al solito scopo, per la Merope, di cui (oltre a dir mirabilia circa la sua forza di «interpretazione di una vita la quale fu sempre piú ansiosa e agitata e avrà le sue incarnazioni in Alfieri per il teatro, in Foscolo per la lirica, in Rousseau per la filosofia»), si sostiene che ebbe «anima greca» perché in essa «ritorna un amore che non è galanteria, una tenerezza che non è languore, una semplicità primitiva, ritornano i caratteri virili energicamente operanti, sullo scenario di una natura non piú idilliaca, ma di una primitività grandiosa in cui tutte le voci dell’universo sono orchestrate con una solennità che rende nauseante la cascante armonia da minuetto del secolo francese».

Un giudizio, fra i molti, che a parte ogni riferimento alla tesi del libro e al suo schematico semplicismo, depongono assai poco a favore della capacità critica e della interpretazione storica della letteratura settecentesca di questo studioso, che, anche per le sue prove precedenti, ci sembra piú adatto alla ricerca erudita, alla raccolta di documenti e di inediti, che non alla ricostruzione storica e critica.

Il saggio dello Schippisi[2] si situa sostanzialmente entro la linea interpretativa Croce-Fubini, in un chiaro distacco dalle vecchie condanne moralistiche e risorgimentali e in una valutazione di letteratura e cultura del fenomeno arcadico.

In questa direzione fondamentale il piú vivo impegno del saggio si rivela nello studio delle origini dell’Arcadia e del suo complesso rapporto con l’ultimo Seicento, dal cui seno lo Schippisi vede muoversi due gruppi di esperienze letterarie-culturali: quella dei verseggiatori edificanti e quella della corrente laico-scientifica (volontà moralizzatrice con un rinnovato spirito di controriforma nella prima, traduzione letteraria di nuove esigenze di razionalismo sperimentale nella seconda). Tendenze confluite nell’Arcadia insieme all’esigenza di rinnovata esemplarità dei classici e poi diversamente svolte nel programma «minimo» crescimbeniano e in quello piú serio e profondo del classicismo integrale del Gravina.

La fondamentale impostazione del problema in termini di cultura letteraria e di poetica è certamente apprezzabile positivamente, anche se il suo preciso svolgimento appare piuttosto incerto e non confortato da un possesso sempre diretto e completo dei testi di poetica e delle esperienze letterarie di questa zona fra prearcadia e fondazione romana.

Cosí appare troppo divisa la tendenza «edificante» da quella «scientifica», almeno per quel che riguarda il gruppo toscano (e rimando in proposito al capitolo La letteratura fiorentina di ultimo Seicento e le origini dell’Arcadia); assai imprecisa è la collocazione del Muratori quale «preromantico per alcuni elementi» ma «fautore dell’imitazione» tout court; non provata l’asserzione secondo cui «alla fine lo stesso Crescimbeni dovette ripiegare verso le idee di classicismo integrale del Gravina» (e in realtà il programma poetico-critico del Crescimbeni, la sua proposta arcadica, andava molto piú chiarita e precisata); discutibile la riduzione del Guidi in termini ancora tutti chiabrereschi e pindarico-secenteschi; grave la mancanza di attenzione, in questa fase iniziale di Arcadia, fra poetica e poesia, al Manfredi, alla sua proposta di petrarchismo non crescimbeniano e ai suoi risultati effettivi di poeta (su cui si veda il mio capitolo Il petrarchismo arcadico e la poesia del Manfredi).

E altre potrebbero essere le osservazioni e i dissensi anche su questa parte che comunque appare piú elaborata e caratterizzata sia, come ho detto, da una equilibrata ripresa di motivi delle piú recenti valutazioni dell’Arcadia entro le condizioni dell’epoca razionalistica e nell’accordo con esigenze nuove di cultura e di società, sia dal tentativo, interessante, e piú autonomo rispetto alla interpretazione Croce-Fubini, di istituire un rapporto di alcuni aspetti della prima Arcadia con motivi della crisi tardo-barocca.

Ma certo piú delusiva è la parte dedicata allo sviluppo dell’Arcadia al di là della fase dei bandi di poetica, e, mentre dei caratteri della poesia arcadica si rivela solo un certo generico gusto di paesaggio, sommariamente e confusamente si registrano, con brevi e poco incisive illustrazioni, nomi di arcadi avvicinati senza alcuna distinzione delle tendenze cui appartengono (e il primo compito di uno studio sull’Arcadia è proprio l’articolazione di gruppi e di momenti di svolgimento di una cultura, di una società, di un gusto, entro cui prendono consistenza e valore le personalità piú notevoli di quello che altrimenti risulta interamente un coro noioso e monotono, un esercizio insapore ed ozioso): un Frugoni, un Savioli (che appartiene chiaramente ad una fase del gusto ormai fuori della vera vita dell’Arcadia), uno Zappi (di cui si ignora la peculiare caratteristica di nitido miniaturismo patetico-melodrammatico), una Maratti, un Rolli, un Meli, e addirittura un Bertola e un Vittorelli delle cui diverse componenti di gusto di fine-secolo è pur necessario rendersi conto se non si vuole assimilare tutto il Settecento alle pure e semplici condizioni della poetica arcadica.

Debole anche – se pure giusto e ovvio è vederlo come culmine e sintesi del gusto arcadico – il ritratto del Metastasio, di cui oltretutto si nega troppo facilmente una serietà di poetica, e a proposito del quale non si può condividere, nella concreta realtà di quelle opere, l’affermazione di una contraddizione fra drammaticità e melodramma nell’Olimpiade e nel Demofoonte, e l’isolamento (del resto secondo una tradizione illustre) delle «ariette» dall’organicità dei melodrammi in cui, almeno proprio le piú pure e belle, vivono la loro vera funzione di canto patetico-melodrammatico.

Questo volumetto, presentato da Giuseppe Petronio[3], si muove nell’ambito di una ripresa della tesi calcaterriana circa l’assoluto sfasamento fra i propositi della riforma antibarocca e la realtà della produzione poetica arcadica, tutto sommato ancora baroccheggiante e ben lontana dall’esempio petrarchesco la cui presenza fittizia, ed effettiva lontananza, vien misurata piú particolarmente in componimenti piú chiaramente petrarchistici.

In questo studio ritornano poi motivi già cari alla critica risorgimentale sui rapporti fra Arcadia e gesuiti e riflessi dell’interpretazione sociologica dello Hauser nella contrapposizione piuttosto banale di una spiegazione tutta sociale della mancata riforma arcadica («di una vera riforma non si può parlare anzitutto perché la società arcadica non è diversamente costituita da quella secentesca, non ha interessi né esperienze culturali piú vaste») e di quelle piú complesse che altri studiosi han dato del valore e dei limiti dell’Arcadia sull’avvio di noti contributi (quale quello del Maugain) e dell’importantissimo rilievo crociano circa il cambiamento di clima culturale e spirituale negli ultimi decenni del ’600 (anche se del Croce si riprendono spesso, con varie contraddizioni, le valutazioni positive della letteratura arcadica come disciplina letteraria, avvio di interesse critico, ecc.).

Dispiace anzitutto in questo modesto lavoro l’estrema disinvoltura circa la precisione di informazione, per la quale basterà ricordare che il Gravina è presentato come gesuita (il che ovviamente significa non aver letto non dirò l’Hydra mistica, ma qualsiasi opera del Gravina, e qualsiasi manualetto scolastico), che io vengo citato come «chi ha voluto fare del Becelli un eroe del preromanticismo» (mentre nel mio Preromanticismo italiano – che nella bibliografia della Sala ritorna a proposito del Becelli – questi è nominato solo in una nota a p. 100 che riferisce una frase del Toffanin sul Baretti e proprio la nota tesi toffaniniana di precorrimenti preromantici nel primo Settecento e nel Becelli è esplicitamente rifiutata in quel mio libro) e che (per citare un caso minimo, ma significativo per questa sciatteria cosí risoluta) la stranota designazione barettiana dello Zappi «inzuccheratissimo» vien decurtata in «zuccheratissimo» e attribuita al Croce, che naturalmente la riportava a suo luogo esattamente e fra virgolette e sostanzialmente dissentiva dalla stroncatura barettiana.

E dispiace tanto piú il tono di sufficienza e la banalità con cui vengono esposte tesi che andrebbero comunque precisate sulla base di una piú discreta conoscenza della storia e della letteratura primo-settecentesca. Cosí non appar lecito ridurre il Maggi, con la sua forte moralità, ad uno che «si era lasciato convertire dalla poesia secentesca ad un’altra forma» dai gesuiti: altra cosa è il rapporto del Maggi con i gesuiti e la stessa dedica dell’edizione 1688 delle Rime al generale dei gesuiti, la coincidenza fra una possibile politica di cultura di questi e le esigenze sincere di uomini come il Maggi, fra i cui stimolatori sulla via antibarocca era pur stato anche il Redi, portavoce di un ambiente letterario-scientifico certo non gesuitico e che è del tutto ignorato dall’autrice. E non appare certo accettabile la definizione globale della società primo-settecentesca come «raffinatamente oziosa, preoccupata solo dell’ossequio esteriore alle leggi morali, animata qualche volta da vaghi impulsi filantropici, ma in realtà solo bigotta ed ipocrita». Ed è proprio sicuro che i pastori arcadi provenissero tutti dal clero e dall’aristocrazia?

Detto questo si capirà che non ci si può attendere molto né dall’esposizione dei propositi antibarocchi degli arcadi (polemica Orsi-Bouhours, opere di poetica del Crescimbeni, Gravina, ecc.), né dalla verifica del fallimento degli arcadi sulla via del petrarchismo.

Per la prima manca ogni rilievo delle effettive caratteristiche delle varie posizioni esaminate (specie per il Gravina, di cui si disconoscono e ignorano la novità di proposte critiche e delle valutazioni di Dante, Ariosto, ecc., e per il Muratori delle cui opere sembra all’autrice – dopo il saggio di trent’anni fa del Fubini – di aver fatto «un’analisi tanto minuziosa»). Nella seconda nell’analisi diretta degli arcadi petrarchisti (e perché poi non tener conto del petrarchismo cinquecentesco notoriamente ben presente anche programmaticamente negli esempi degli arcadi?) si ripetono cose assai ovvie (quanto a repertorio di riprese petrarchesche molto offriva già il Mannucci) già dette da altri con gusto critico meno elementare. Come nel caso dell’«illeggiadrimento» arcadico del Petrarca, nel rilievo della poesia del Manfredi (ma come va che il Manfredi riuscisse ad una poesia totalmente priva di residui barocchi se anche lui viveva nella interamente squalificata società arcadica?) su cui l’autrice scrive due scialbe paginette che sono un mediocre riassunto delle analisi del Croce e mie.

Arcadia provinciale

Questo modesto saggio[4] sulla personalità del marchese Giuseppe Tedaldi, letterato piacentino della prima metà del Settecento, si ispira ad una giusta ed utile esigenza di concreta e minuta ricostruzione della cultura, della poetica, del costume letterario e civile dell’età arcadica nei diversi centri cittadini italiani, ricchi di propri fermenti e sollecitati dal generale rinnovamento della letteratura e della cultura sotto la spinta delle nuove correnti di pensiero razionalistico e del nuovo gusto nella sua vasta accezione letteraria, umana, storica.

Credo che in tal senso alcune precise ricerche, orientate da un sicuro senso storico e critico (diversamente quindi dalla direzione di raccolta erudita di dati e di fatti, di descrizione ambientale puramente cronachistica dominante in simili studi nell’epoca positivistica di cui è documento anche quello dedicato all’Arcadia piacentina dal Picco: Nei paesi dell’Arcadia: la colonia trebiense, in «Bollettino storico piacentino», I, 1906), darebbero interessanti indicazioni per una generale e auspicabile ricostruzione storica della cultura e della letteratura italiana nell’età dell’Arcadia. Offrendo non solo utili precisazioni sulla importanza specifica dei vari centri culturali nella singolare ripresa di attività spirituale e culturale e nella trasformazione delle condizioni di vita cittadina all’inizio del Settecento (con evidenti illuminazioni sulla vita sociale e storica delle varie città e nel ricambio cosí vivo fra la rinnovata vita locale e la generale vita culturale nazionale attivata dal centro propulsore dell’Arcadia), ma anche efficaci esempi concreti della vita delle colonie arcadiche, spaccati vivi e saporiti di una società in movimento dopo la vita piú statica del Seicento, nella nuova apertura a motivi di civiltà e di letteratura nazionale ed europea, nella nuova curiosità culturale, pur nell’ambito di convenzioni ufficiali e cortigiane variamente attive o limitative (fra cui la varia efficacia dell’opera dei gesuiti e delle loro scuole), nella presenza e nella resistenza di residui barocchi e tardobarocchi, nell’incontro e nel vario sviluppo dei diversi filoni letterari e culturali attivi nella cultura e nella poetica arcadica. Fra classicismo, petrarchismo, accentuazioni di poesia «grande» e di miniaturismo melodrammatico, di esigenze morali ed edonistiche, di piú sicure venature preilluministiche e cristallizzazioni di ordine conformistico, fra gusto dell’erudizione fine a se stessa e piú profondo senso della interpretazione storica, fra convenzionali esaltazioni delle arti figurative e della musica e l’attiva influenza di queste sullo svolgimento della letteratura verso forme plastiche o melodiche. Per non parlare del recupero importantissimo della vita teatrale nelle singole città con l’incontro di una comune aspirazione su piano nazionale e della ripresa di elementi tradizionali locali e popolareschi.

Ma questo lungo discorso, che amerebbe trovare la risposta di concrete applicazioni al di là delle vecchie ricerche tutte viziate da una coscienza storica e critica insufficiente e dal gusto del semplice quadretto colorito e gustoso legato anche ad un’immagine superata della vita della cultura del primo Settecento, non può trarre qui il suo spunto che dalla generica volontà del saggio schedato.

Non solo perché questo si rivolge solo ad una figura mediocre ed incerta, ma perché anche nei confronti di quella rimane piuttosto esteriore e inutilmente elogiativo, appoggiando giudizi di valore letterario o addirittura poetico e rilievi di significatività di gusto, di cultura nuova a citazioni assai poco probanti, mentre non realizza (se non per quel che riguarda la traduzione dal francese di un trattato di belle maniere, indicativo per il nuovo gusto di civile convivenza, e per l’attenzione del Tedaldi alla lingua e alla civiltà francese) quegli spunti che nelle rare opere letterarie del suo autore potevano provare non inutilmente (anche se in un letterato di scarsa importanza ed efficacia personale) la sua adesione a diversi motivi arcadici specie di origine settentrionale o emiliana: come quello guidiano della poesia immortalatrice degli eroi (nella introduzione all’«accademia» in memoria di Carlo VI) o quello manfrediano del rimpianto e della esaltazione del poeta nel comprendere l’animo di una giovane che si fa monaca, cosí preciso nel sonetto per Paola Schiavi. Per il resto si rimane nel campo di accenni troppo poco precisati, troppo poco documentati rispetto al volenteroso e plausibile disegno di determinare, entro un preciso ambiente locale, l’evoluzione, le remore, gli acquisti di una personalità di primo Settecento nella sua apertura alla nuova cultura razionalistica e arcadica, ai nuovi valori di vita e di società.

Aglauro Cidonia

Dopo una rapida introduzione dedicata a delineare una sommaria descrizione delle ragioni storiche e letterarie dell’Arcadia, lo studio del Maier[5] si propone di ricercare nella Maratti Zappi un modo di «modesta, ma personale esperienza di poesia» e insieme un «carattere umano».

Lo studio si articola cosí in due parti. La prima descrive le caratteristiche vicende della vita della Maratti; il noto tentativo di rapimento da parte di Giangiorgio Sforza Cesarini, che circondò di tanta simpatia ed aura poetica la figura della bellissima e «virtuosa» fanciulla (sino a creare il mito di una nuova e piú avventurata Lucrezia); il matrimonio felice con lo Zappi, insaporito da momenti di gelosia per il fascino del gentilissimo “cavaliere”, avvocato e dicitore di Arcadia, e arricchito dalla fitta rete di amicizie umane e letterarie di cui la casa Zappi a Roma fu centro; poi la dolorosa perdita del figlioletto Rinaldo e dello stesso marito e la ripresa umiliante delle calunnie sparse sulla sua virtú dagli Sforza Cesarini e culminate nel processo intentatole dal bastardo di Giangiorgio per essere riconosciuto frutto dei suoi presunti amori precedenti il tentativo di rapimento. La seconda parte è diretta a mostrare come i sentimenti fondamentali della Maratti (amore, dolore, sdegno, legati a precisi episodi biografici) vengano a costituire i temi della sua poesia, ai quali devono essere aggiunte una tematica piú occasionale e direttamente letteraria e di moda (sonetti per nozze, monacazioni ecc.), e quella piú tipica del suo esercizio di sonettismo eroico-pittorico in quei ritratti delle donne illustri della storia romana, in cui potrebbero ritrovarsi anche alcuni spunti esemplari dei sonetti storici-figurativi della Galleria del Marino. A proposito del quale e del secentismo il Maier mostra di ritenerne possibile una maggiore presenza anche nelle rime della stessa Zappi, malgrado la sua decisa posizione antibarocca e malgrado il prevalente peso del petrarchismo, entro la cui lezione stilistica e psicologico-spirituale è naturalmente da rivedere la formazione fondamentale della poetessa romana.

La «lettura» del Maier segue cosí i temi prima accennati, nel loro sviluppo sostanzialmente diaristico, nella loro assicurata sincerità psicologica, appesantita spesso da residui piú pratici e interrotta qua e là dalla presenza piú netta della «letteratura» (donde «stilizzazione degli stati d’animo secondo canoni estetici tradizionali nella poesia di Faustina, e in buona parte di questa, restando solo raramente aperto, tra effusione e letterarietà, un varco o un margine in cui l’affetto riesce a trovare il suo stile ed a conseguire il livello della poesia»), e ritrova accenti piú persuasivi nei sonetti amorosi per il marito (dalla cui poesia quella della Maratti sarebbe distinta da una generale maggior «nettezza di disegno» ed «energia di accento»), in quelli dolorosi per la morte del bimbo e del marito, in quello celebre per la gelosia, oltreché in alcuni sonetti ispirati a motivi di sdegno e di difesa della propria dignità e purezza. La cui intonazione energica, ispirata ad un «senso eroico e robusto della vita, che non era del tutto estraneo al suo temperamento», si ritroverebbe anche in alcuni sonetti sulle eroine dell’antichità che han pure un certo sapore di «autoritratto» o almeno rispecchiano la volontà della Maratti di esaltare momenti e sentimenti della sua vita in miti poetici e storici: ai quali, si può aggiungere, la incoraggiavano, in quel nesso inseparabile di vita sociale e letteraria che è fondamentale in Arcadia, le stesse glorificazioni della nuova Lucrezia da parte di altri rimatori.

Alla conclusione (che ribadisce il carattere diaristico del piccolo canzoniere della Maratti, riconosce nella «confessione» «sincerità e schiettezza» e «degli sprazzi e dei frammenti di poesia» e, assicurando che Aglauro «non difettava né di sentimento, né di gusto, né di preparazione tecnica e stilistica», afferma che «né la donna cede alla poetessa né la poetessa supera o fa dimenticare la donna»), seguono una utile appendice sulla cronologia delle rime della Maratti, composte quasi esclusivamente nel periodo trascorso accanto al marito (1705-1719), e un’altra che contiene alcuni inediti posseduti dalla Biblioteca Comunale di Bologna.

Si tratta di alcune stanze scherzose e di un lungo ragionamento in difesa del sonetto Con fronte crespa e sguardo aspro e severo che è testimonianza notevole della cultura letteraria della Zappi (e del suo cartesianesimo), delle sue minute preoccupazioni di autorizzazione illustrate delle proprie espressioni, e soprattutto, secondo me, della sua vivace presenza in un ambiente in cui l’esercizio poetico, anche quando nasce su di un’essenziale vocazione personale, si svolge entro una assidua discussione letteraria e socievole, entro una collaborazione e una comunicazione, entro un generale gusto cosí concorde, che gli stessi elementi autobiografici si fondono radicalmente con inclinazioni della poetica e del costume di una società attiva e lucida, non certo frivola ed esteriore, ma certo aliena da forti rilievi drammatici e dal senso della solitudine e di un profondo distacco interiore.

E proprio da questo punto di vista, sulle cui particolari implicazioni sarebbe necessaria una precisazione piú lunga di quella qui abbozzata, si può rilevare nello studio del Maier un peso eccessivo dato alla sincerità e schiettezza psicologica, alla presenza di un saldo tessuto autobiografico, a precise vicende sentimentali che hanno comunque un loro particolare tono e valore proprio in quanto inserite in una speciale inclinazione del gusto e della società arcadica a crearsi miti e vicende poetiche, la cui mèta effettiva non è il dramma, ma il melodramma, non l’espressione tormentosa e appassionata, ma il canto e la vibrante scenetta melodica e miniaturistica (e non perciò solo svenevole o frivola) cosí coerente alle stesse proporzioni godute e partecipate di un modo di dialogo e di conversazione animata e lucida, eletta e affabile che è uno degli elementi piú validi della definitiva rottura dell’enfasi e del turgore stilistico e linguistico barocco.

In tal senso, lo studio del canzoniere e della vita della Maratti sembra doversi orientare piú decisamente verso la intonazione piú vera di quella esperienza vitale e poetica che, certamente sincera anche nella sua base umana, si può meglio caratterizzare – entro un quadro piú duttile dello stesso svolgimento dell’Arcadia, della sua mentalità e della sua poetica – in una fase che, al di là delle proposte severe del Gravina e dei tentativi di un Guidi, si precisa in una netta direzione melodrammatica, cantabile e miniaturistica di cui proprio lo Zappi (che appare un po’ depresso nello studio del Maier, in confronto con la moglie, in realtà meno precisa e sicura, anche se priva di certi eccessi di aggraziata svenevolezza del primo) è rappresentante interessantissimo ed efficace (come già mostrò il Croce), con i suoi sonetti misurati, elaborati e sicuri, veri e propri piccoli melodrammi in miniatura, vivacissimi nel dialogo patetico e nell’incisiva presenza delle sue figurine, nell’esile canto delle sue clausole a lor modo perfette.

La Maratti non andrebbe cosí, secondo me, troppo distaccata dal marito (di cui essa risentí certo non solo il fascino umano, ma l’insegnamento poetico) e da tutto quell’ambiente di scrittori e scrittrici dell’Arcadia romana tra i quali certamente essa spicca per notevoli qualità personali, e a cui la collega una comune esperienza e tendenza, un comune svolgimento di formazione.

Ché anche questo è punto che io credo debba esser meglio chiarito, specie nei riguardi dell’insegnamento del Guidi cui il Maier piú volte accenna. L’ambiente romano e proprio quello delle poetesse con cui fu piú legata la Maratti, come la Paolini Massimi, la Grillo, la Capizucchi, aveva risentito della presenza del Guidi, del suo accento di vate sdegnoso, morale, eroico, ma ben presto (e documento caratteristico ne è la nota canzone autobiografica della Massimi) tali toni e temi morali ed eroici vennero svolgendosi – a contatto con il maturarsi degli elementi piú genuinamente arcadici, anacreontici, cantabili, melodrammatici e del petrarchismo «illeggiadrito» – in un singolare appoggio di forme sentimentali e stilistiche che scioglievano il tetro ed enfatico piglio del Guidi in tutt’altra direzione; e la lezione di serietà che era nel suo insegnamento si risolveva in sostegno di una animazione patetica e melodica, il suo grandioso «barocchetto» si risolveva in linee piú morbide aggraziate e vibranti; le voci del dolore si svolgevano in canto patetico di cui proprio alcuni sonetti piú equilibrati della Maratti sono esempio piacevole e valido.

Sicché, anche nella valutazione del canzoniere di questa, piú che ai sonetti storico-eroici (scartati naturalmente col Maier quelli politico-encomiastici piú esteriori) io guarderei senz’altro ai sonetti patetici e melodici: come quello della gelosia, in cui accentuerei proprio il gusto del dialogo e della scenetta davvero eccellente, o come altri che il Maier sembra meno apprezzare troppo puntando (come già fecero, con tanto minore cautela, il Morandi e il Salza) sulla energia virile e sui temi del dolore forte o dello sdegno della virtú offesa, il cui svolgimento effettivo è comunque sempre piú verso il melodramma che il dramma.

Penso cosí che, mentre sarebbe utile precisare meglio l’indicazione dei vari modelli petrarcheschi utilizzati dalla Maratti e significativi per la sua scelta e per la sua soluzione personale entro i modi arcadici (cosí è indicativa la ripresa di temi e simboli della Colonna, a cominciare dal Sole-marito, centrale nel canzoniere detto appunto del «bel Sole», e la loro realizzazione però in una intonazione di canto gentile e pittoresco agevolato da echi della Stampa, del Tansillo, del madrigale tassesco), nella lettura delle rime della Maratti meglio sarebbe puntare piú decisamente sui risultati piú freschi, cantabili e patetici: in cui pure si esprimono una sensibilità e un sentimento genuino, ma nel rilievo non della passione o dell’energia quanto d’una animazione vibrante e melodica che si avvale di quadri paesistici gentili e gustosi (in verità piú congeniali di quelli oscuri e tormentati piuttosto esteriori e retorici) e si articola con efficace misura sino a quei finali melodiosi e patetici a cui darei sempre maggior valore che non a quelli sentenzioso-epigrammatici dei sonetti storici e pittorici.

Le osservazioni qui fatte non tolgono che il saggio sia certamente ben apprezzabile per l’accuratezza di ricerca e per la volontà di ricostruzione di una notevole personalità arcadica, anche se proprio tale volontà di ricostruzione e di giudizio individualizzante di una figura, in cui cosí particolare è l’accordo vita-poesia, può avere indotto il Maier ad accentuare eccessivamente il valore dell’elemento autobiografico e psicologico di una esperienza poetica che doveva, secondo me, venir comunque piú decisamente accordata con le particolari condizioni dell’animo e della poetica arcadica, di una intonazione fondamentale piú patetica che energicamente appassionata, piú gentile che eroica.

Benedetto Marcello

L’Angeli, che già curò una edizione del Teatro alla moda nella «Cronaca musicale» di Pesaro, ripubblica ora[6] l’importante testo settecentesco, riprodotto sulla base della prima edizione del 1720 e corredato di abbondanti note e di una prefazione che espone brevemente la genesi e i caratteri del libro entro le generali condizioni della polemica settecentesca sul melodramma e sui rapporti fra impresari, musicisti, poeti teatrali, suonatori e cantanti, nonché nella particolare posizione personale del Marcello, classicista e per natura disposto a un gusto di satira e di parodia comica, di bizzaria arguta, documentata anche in certi aspetti dalla sua produzione musicale (che accompagnano in tono minore la sua opera piú impegnativa e solenne – specie i Salmi che gli meritarono fra i contemporanei la qualifica di «Michelangelo della musica»), come nel Calisto in orsa, o nella musica caricaturale della lettera alla Tesi che l’Angeli propende a ritenere del Marcello e che riporta nell’Appendice.

Indicazioni sostanzialmente giuste, anche se in uno studio piú ampio si potrebbe desiderare una piú accentuata considerazione dell’importanza del Teatro alla moda, oltre che come base e stimolo di tante opere parodistiche e satiriche della vita teatrale settecentesca, fra esposizione di esigenze di riforma e satira di costume (dall’intermezzo L’impresario delle Canarie del Metastasio, il quale offre poi in alcune sue lettere un’abbondante e personalissima raccolta di discussioni e di attacchi vivacissimi contro le pretese dei cantanti e la disorganicità dell’opera in musica, al melodramma giocoso del Goldoni L’impresario delle Smirne – e quante offerte interessantissime non si trovano nel Teatro alla moda proprio per il Teatro comico? –, fino alla tarda e fiacca commedia del Sografi, Le convenienze teatrali), anche proprio nelle precise condizioni del primo Settecento in cui la parodia parziale ed estrosa di aspetti della vita teatrale (come la gustosissima Dirindina del Gigli) si associa ad una piú impegnativa polemica contro la degenerazione del melodramma (e in genere di tutto il teatro), in nome dei diritti della parola poetica, della comprensibilità e unità «verisimile» dell’organicità dell’opera, della concorde educazione dei musicisti, dei poeti, dei cantanti, fra le proposte di riforma di un Muratori, di un Gravina, di un Maffei e l’opera concreta nei vari campi teatrali dello Zeno, del Metastasio, del Fagiuoli, del Nelli, del Martello e ancora del Maffei.

E da tal punto di vista ancor piú si dovrebbe insistere sulla cultura classicista, sulla posizione antibarocca e nettamente arcadica del Marcello[7]: decisive in tal senso specialmente le avvertenze Ai poeti tutte incentrate sulla natura del «modernismo» avventato, dilettantesco, privo di cultura e della lezione essenziale d’ordine, di chiarezza, di organicità, di psicologia, d’azione, di discorso poetico, derivata dai latini e greci, dai poeti italiani come «Dante, Petrarca, Ariosto» ritenuti dai librettisti ancora legati al ’600 «poeti oscuri, aspri e tediosi».

La posizione del Marcello è poi particolarmente vicina a quella del Metastasio nell’avversione per gli effetti spettacolari, per l’indipendenza dal recitativo delle ariette ad effetto e per la loro tematica di concettismo strampalato: si ricordino le ariette dell’Impresario delle Canarie, e poi quelle celebri del Crudeli: Il vezzoso terremoto ecc.

Solo che mentre il Metastasio finiva nelle sue discussioni di poetica per subordinare nettamente la musica alla poesia, la posizione del Marcello si individua in una piú forte richiesta di collaborazione fra poeta e musicista, in un’attenzione maggiore al parallelo «rinnovamento» del libretto e della musica ispirato agli stessi ideali arcadico-classicistici, o addirittura nel desiderio di una unicità di poeta e musicista come sarebbe avvenuto fra i greci.

Cosicché pare un po’ fuori luogo l’osservazione secondo cui l’Angeli precisa che la polemica del Marcello non poteva in realtà esercitarsi contro i musicisti veneziani della sua epoca, alcuni dei quali originalissimi e «rinnovati», perché in realtà il Marcello pensava non alla musica separatamente, ma a tutto il complesso organico dell’opera per musica (libretto e musica) e alla sua esecuzione fino, diremo noi, alla regia.

Manca poi nella introduzione dell’Angeli, che guarda prevalentemente al significato del Teatro alla moda nella polemica teatrale-musicale, una adeguata attenzione al valore letterario del testo marcelliano, vivacissimo e costruito con sapienza e brio davvero notevole, come può ben indicare la maestria con cui il Marcello regge il suo libro su di un unico modulo fondamentale (l’avvertenza ai poeti, ai musicisti ecc. in forma di ironica precettistica: «In primo luogo non dovrà il poeta moderno ecc.», «chiamerà», «scriverà», ecc. ecc.) che costituisce un ritmo generale solo apparentemente monotono e in realtà gustosamente ossessivo con la sua fermezza didascalico-parodistica, sviluppata nei singoli paragrafi con un alternarsi efficacissimo di esiti apertamente comici nelle ripetizioni ed enumerazioni di termini gergale-teatrali (ora allungate a dismisura ora rapidamente interrotte dall’«eccetera») o nelle presentazioni di procedimenti del malgusto teatrale condannato.

Mentre il ritmo generale si arricchisce progressivamente di vere e proprie scenette comiche che salgono – specie nelle parti dedicate ai cantanti, alle virtuose, agli impresari e a tutto il variopinto popolo delle comparse, dei suggeritori, dei protettori, delle madri delle virtuose ecc. ecc., in un caleidescopio agitato e presentato in un movimento che evidenzia lo stato di disordine, la mancanza di gerarchia di valori, l’intrusione e il prevalere d’interessi totalmente extrartistici, d’ignoranza, vanità, sbadataggine, di un mondo di esecutori a cui corrisponde un’opera disorganica e dilettantesca – da rapide caricature (il cantante che canta a bocca socchiusa, coi denti stretti e che «insomma farà il possibile perché non s’intenda neppure una parola di ciò che dice, avvertendo nei recitativi di non fermarsi né a punti, né a virgole» e che «essendo in scena con altro personaggio, fino che quegli parla seco per convenienza del dramma o canta un’arietta, saluterà la maschera nei palchetti, sorriderà co’ suonatori, con la comparsa, etc. perché il popolo chiaramente comprenda essere egli il signor Alipio Forconi musico, non il principe Zoroastro che rappresenta») alle parti piú direttamente dialogate e sceneggiate in cui campeggiano la virtuosa e la madre, e in cui l’humour marcelliano si consolida nelle battute dialettali petroniane che aggiungono un certo colorito di provinciale rozzezza, da gente di limitatissima apertura mentale, nettamente incapace di capire i valori estetici alla cui espressione dovrebbe collaborare.

E certo, come fu notato sin dal Carducci, l’esemplarità del Teatro alla moda poté ben essere presente anche al Parini del Giorno (o in parte anche al Gozzi dei Sermoni) per i suoi moduli di stile parodistico-satirico, per i suggerimenti ricchissimi di effetti umoristici, di giuoco estroso e sottilmente ordinato, per il modello di una grandiosa parata di caricature e di scene appoggiate, pur in una direzione piú limitata e meno impegnativa, sulla fondamentale base del contrasto di un ideale serio e di una realtà continuamente contraria ai principi settecenteschi della ragione, della natura, del buon gusto.

Maffei politico

Segnalo questa edizione del Consiglio maffeiano dovuta alle cure del compianto Luigi Messedaglia[8], utilissima a riproporre la lettura (l’unica edizione esistente finora era quella del Palese, del 1797, divenuta oramai rarissima) di un’opera di vera importanza nella storia del pensiero politico italiano del Settecento e nella complessa attività del grande erudito veronese, di cui essa conferma l’acume storico e politico.

Essa contiene infatti una decisa presa di coscienza delle ragioni costituzionali della decadenza della repubblica veneta nella mancata creazione di un vero stato regionale che saldasse con una attiva partecipazione di governo la terraferma alla capitale, e una proposta di soluzione di regime rappresentativo che – pur nella limitazione prudenziale con cui il Maffei teneva conto della audacia del suo «consiglio» e nella cautela sostanziale di chi voleva innovare conservando il piú possibile – veniva a suggerire una forte innovazione nella struttura del governo veneto.

Tutto lo scritto infatti, che meriterebbe un nuovo studio organico, al di là dei saggi già ad esso dedicati[9], ha il suo centro nella diagnosi della decadenza dello stato veneto sempre piú incapace di reggersi efficacemente nella nuova situazione italiana ed europea (e il Maffei denuncia coraggiosamente «le vergognose massime, ed il vergognoso vivere che ora regna nello Stato») e nell’energica, insistente indicazione della necessità per uno stato del consenso e dell’interesse di tutti i suoi cittadini (non «sudditi»).

Continuamente il Maffei batte sulla necessità che lo stato viva nella partecipazione di tutti i suoi componenti («tutti» è un po’ la parola tematica fondamentale dello scritto) fino ai piú miseri ed oscuri, che esso rappresenti i loro effettivi, concreti interessi, superando d’altra parte nella soluzione parlamentare suggerita dagli esempi di molti stati europei (primo e piú stimolante quello inglese) le forme di partecipazione diretta e caotica delle vecchie repubbliche comunali italiane.

Sistema rappresentativo in cui l’ammirazione per alcuni stati moderni (e la descrizione del loro regime e della loro vita economica, sociale, civile, specie dell’Inghilterra e dell’Olanda, dà vita a pagine dense e vive, con note di schietto amore per una vita libera e civile che richiamano anche, sulla base di una concreta esperienza di viaggiatore, certi passi della Vita alfieriana) si fonde con l’ammirazione per il regime repubblicano romano (soprattutto per la sua capacità di render «cittadini» i popoli conquistati), colorando in modo assai singolare con aspetti di applicazione politica (e con echi e analogie con posizioni montesquieuiane) il classicismo «moderno» del Maffei. Il quale rimpiangeva come i veneziani dopo la conquista della terraferma non avessero «imitata l’idea romana con far partecipare le città conquistate della libertà e con introdurle in qualche modo nella repubblica» e non avessero contemporaneamente «eletto il metodo dei moderni, senza indurre la confusione popolare con l’eccessiva moltitudine... senza incontrare il disordine de’ romani». E il testo prosegue significativamente: «Ma in quel tempo le buone lettere, latine e greche, non erano rinate ancora, onde non era possibile di conoscere per qual massima e con qual sistema fossero arrivati a tanto dominio i romani; ed i governi inglese, olandese, e gli altri descritti non erano formati ancora, onde non si potevano considerare gli effetti che il loro modo vien a produrre». Mentre ora «che gli antichi scrittori ci son resi cosí familiari e che queste nuove repubbliche ci stanno dinanzi agli occhi, niente osta al far uso del beneficio degli studi, e del vantaggio de’ tempi... facilissimo sarà imitare gli antichi, usandovi la correzione de’ moderni».

Cosí come, in questa linea di incontro di tradizione e di correzione moderna, significativa è la tendenza maffeiana a riprendere insegnamenti del pensiero machiavellico, specie nelle sue componenti piú democratiche e modernamente accettabili, liberandole dalla concezione dello Stato-Individuo e dell’amoralismo con cui (come nota il Messedaglia nella lucida e piana Premessa che chiarisce la genesi dell’opera nei precedenti della Verona illustrata e nell’esperienza essenziale del grande viaggio europeo al cui termine il Consiglio fu scritto) il Maffei polemizza là dove dice che la politica non consiste «in sempre esser scellerati, quando in utilità ciò par che torni».

Del Machiavelli il Maffei riprendeva il motivo dell’eccellenza della politica (accentuandone però l’aspetto settecentesco di funzione del «bene pubblico»), dell’unità fra libertà e forza (la prima parte del libro si intitola appunto «Si mostra come per mantenersi liberi e domini, è necessario crescer di forze»), la necessità di armi proprie, ma, ripeto, tutto ciò con una forte accentuazione eudemonistica, con il senso nuovo della «pubblica felicità», e con la centrale esigenza del consenso spontaneo di tutti, come chiarisce particolarmente la seconda parte che si intitola «Che si può crescer di forze senza crescer di stato» e cioè con l’interessare tutti in modo che mai piú debba ripetersi quanto il Maffei narra avvenuto durante un’invasione del Veneto, quando si udí dire dai contadini: «De chi sarà la casa, ghe pagheremo el fitto!», e venga spezzata la situazione di quei veneti della terraferma che erano «tenuti in condizione di meri sudditi, esclusi da ogni comunicazione di società e da qualunque partecipazione di libertà».

Tutto il libro è permeato da uno spirito attivo e sollecito del bene pubblico, da una viva coscienza civile aperta ai motivi nuovi della valorizzazione delle forze produttive di un paese e dei loro diritti (come nel caso dei contadini che il Maffei considera partecipanti alla «repubblica», giustamente, «mentre di quella condizione è la maggior parte del genere umano, ed è quella che fa viver le altre»), da un sincero disprezzo per gli elementi parassitari e sin da una significativa fiducia nella educazione degli strati piú bassi e abbrutiti della popolazione da parte delle forze piú attive e illuminate.

Certo quando il Maffei passa alle modalità concrete del suo consiglio, alle particolari proposte per l’immissione di rappresentanti della terraferma veneta nel governo veneziano, queste non possono non apparirci che assai timide quanto al numero e alla condizione nobiliare dei rappresentanti, ma, a parte il fatto che egli non poteva non tener conto della natura oligarchica del governo veneziano, è pure evidente che egli stesso era un riformatore fortemente moderato. Sarebbe cosí errato chiedere a lui piú di quanto egli poteva dare o forzare il suo pensiero fino a vere posizioni illuministiche estreme. Rimane però di positivo la spinta democratica centrale, l’esigenza realistica del nesso fra interesse e partecipazione dei cittadini allo stato e la sua prosperità, nonché l’acuta diagnosi di una delle cause maggiori della debolezza della repubblica veneta.

Da notare poi l’interesse che questo libro ha nella valutazione dello scrittore e della sua prosa che è esemplata su moduli di prosa storica tradizionale, ma sveltita dalla consuetudine con la pubblicistica europea illuministica: ancora una prova, con esiti assai vivi e interessanti, del suo incontro classicismo-modernità, che ebbe risultati notevoli, ma piú chiaramente arcadici, nel linguaggio poetico naturale-eletto, discorsivo, affabile e pur sostenuto da riferimenti classici, della Merope.

La Merope

Breve e garbato saggio commemorativo sulla famosa tragedia maffeiana di cui il Pompeati[10] rileva la genesi letteraria (esempio concreto di una riforma del teatro tragico italiano sulla base di un eclettismo intelligente e di buon gusto), la sua grande fortuna nel Settecento in Italia e fuori di Italia (con l’eccezione vistosa della gara e della critica del Voltaire e poi con quella del rifacimento e del giudizio limitativo dell’Alfieri), cercando poi di assicurarle – pur nella costatazione del carattere frammentario dei personaggi, dell’«alternarsi delle intenzioni compositive» e del «passare da modi elegiaci a modi crudi ed esasperati, da effusioni pittoriche a scorci brutali» – «una qualche sostanza poetica ed umana», «qualche momento di piú vigilata poesia», ritrovati soprattutto nella espressione schietta e semplice del sentimento materno di Merope e in alcuni squarci lirico-elegiaci, in cui il motivo arcadico della pace pastorale acquisterebbe una pacatezza e sincerità particolari.

Il carattere commemorativo e la stessa brevità del saggio non offrono la base per una discussione particolareggiata, ma vorrei almeno notare che il carattere di efficace eclettismo e di compromesso della Merope fra le esigenze piú sintetizzabili delle varie proposte di riforma del teatro tragico del primo Settecento arcadico dovrebbe esser molto piú chiaramente affermato e collegato al tono medio che il Maffei perseguí e raggiunse nella sua tragedia-esempio, sia nella direzione dei sentimenti e delle situazioni (e non mi pare che si possa parlare di «scorci brutali», di «modi crudi ed esasperati» se non assumendo il punto di vista della intransigente «delicatezza» e «bienséance» del Voltaire), sia in quella di un misurato recupero di melodramma nel dramma, di canto nel «ragionar naturale» («maestà servando e decoro») secondo i precisi intenti del Maffei, particolarmente realizzati nel suo sciolto affabile e dignitoso, nel suo dialogare poco intenso e mirante soprattutto a chiarezza e naturalezza (e che all’Alfieri parve un gusto di mediocrità «chiaretto e semplicetto» come i personaggi della tragedia).

Un testo, insomma, la Merope, da immergere ancor piú decisamente nella poetica arcadica, nel suo desiderio di organicità, di naturalezza, di comprensibilità, e da ricondurre ancor piú chiaramente alla posizione «media» del Maffei, a quella sua misura letteraria ed umana che gli permisero di ottenere il plauso dell’epoca arcadica, il riconoscimento di riformatori fra loro contrastanti e i quali in quell’abile, efficace sintesi videro realizzate le loro esigenze piú accordabili e quella «rappresentabilità» teatrale che il Maffei, letterato attento alle esigenze pratiche dello spettacolo, meglio di loro riuscí ad ottenere.

Che poi anche la Merope sia ben lontana da una vera vita drammatica e corrisponda piú ad un’aspirazione che ad un’ispirazione tragica (tragedia nei limiti dunque di un animus per sua natura privo di profondi elementi tragici), lo può ben dimostrare il «rifacimento» originale dell’Alfieri tutto teso a drammatizzare (anche se con adattamenti relativi a questo difficile compito fra creativo e critico e, d’altra parte, con un esercizio di linguaggio e di situazioni che non fu inutile alla successiva espressione di un «mondo minore» e di sentimenti piú familiari e normali nel Saul e nella Mirra) l’inclinazione piú melodrammatica e discorsiva del testo maffeiano.

La «Vita» del Giannone

Nella «Biblioteca di classici italiani» diretta dal Muscetta, come sezione dell’Universale Economica Feltrinelli, esce questa nuova edizione della Vita del Giannone, curata con diligenza e competenza da Sergio Bertelli[11]. Per i criteri del testo (la nuova edizione si avvantaggia rispetto a quella fondamentale del Nicolini, del 1904, per una maggiore fedeltà alla grafia e ai particolari modi di grammatica e di sintassi dell’autografo) e per la storia dell’autografo rimandiamo all’articolo del Bertelli, Appunti ed osservazioni in margine ad una nuova edizione dell’autobiografia giannoniana[12]. Apprezzabile è anche la lucida introduzione, che parte dalla constatazione dell’importanza del genere memorialistico nel Settecento, indice della preoccupazione del secolo di «fornire da se stesso la propria storia» (da cui il Bertelli ricava una considerazione generale sul Settecento che meriterebbe di essere discussa e precisata nel suo stimolo e nella sua estensione troppo generica: «forse sembrerà strano, ma nessun secolo ebbe il senso del tempo, della storia, piú di quello che fu detto il secolo antistorico per eccellenza»), e da una rapida rappresentazione della situazione della società napoletana e della centrale posizione in essa del ceto intellettuale privo, per la sua eterogeneità, di forza politica propria e quindi destinato a proporsi come alleato dello stato assoluto contro i baroni ed il clero. Il Bertelli descrive poi storicamente la vicenda vitale del Giannone e la condizione in cui, dal 1746 in poi, nel castello di Miolans, questi stese la propria biografia. Autobiografia che non è solo il racconto di una vita, ma in qualche modo, per spaccato, la storia del periodo compreso fra le guerre di successione spagnola e polacca, ed anche la storia della politica austriaca nel napoletano e della burocrazia imperiale alla corte di Carlo VI. Mentre, e piú, è la storia dell’evoluzione della cultura napoletana dalla scolastica al gassendismo e al cartesianesimo, come fu vissuta da un grande storico che fu insieme l’esponente maggiore di un movimento di pensiero che, irradiandosi dagli angusti confini del regno napoletano, seppe parlare alle altre correnti illuministiche europee, e seppe precisare entro la piú generale impostazione della scoperta e del contrasto fra due forze opposte – il potere temporale e il potere spirituale – una strada saldamente motivata dalla realtà politica degli stati italiani, piú ancora che da una esplicita e preminente riforma religiosa il cui senso e i cui limiti sono appunto precisati da questa autobiografia: ortodossia del Giannone (il rifiuto di una conversione alla Riforma era legato anche alla chiara coscienza che quella avrebbe gettato a terra di un sol colpo tutta la sua difesa dello stato) e preminenza dell’impegno politico-storiografico entro concrete condizioni storiche. Di queste l’autobiografia ci fornisce gli elementi piú precisi e piú atti a favorire una migliore valutazione della genesi delle opere giannoniane.

Pochi cenni riguardano il valore letterario dell’opera, nella quale il Bertelli sottolinea la pesantezza e complicatezza dello stile (non privo di sgrammaticature e di errori di sintassi) e la vicinanza ancora a modelli barocchi, mentre ritrova momenti di vera poesia e di alta drammaticità esemplificati nel ricordo della villa di Due Porte, nella rievocazione dell’amore per Elisabetta Angela Castelli, o nella descrizione della famiglia Leichsenhoffen e del doloroso distacco da quella al momento della partenza per Venezia, o soprattutto nella scoperta, piena di orrore e di spavento, della violenza della natura, attorno alla fortezza di Miolans. Che sono indicazioni sostanzialmente accettabili, anche se io accentuerei di piú, sulla via dell’epistola calamitatum, proprio i toni drammatici della persecuzione subita come quelli piú altamente poetici (assai minori e piú fuggevoli quelli della rievocazione nostalgica estremamente sobria, anche se perciò molto efficace, della vita idillica domestica a Napoli e a Vienna) e saldamente unificati nella prevalente direzione sentimentale-ideale e tragico-elegiaca di un destino duro ed avverso, di una sofferenza ed esperienza di «martire» – non perciò di vittima inerte – della tragica situazione dell’individuo preso nell’urto fra la sua onestà e la malvagità degli uomini e degli avvenimenti. Che è il senso ben esplicito del grave e dolente proemio progressivamente incupito sino al pessimismo di una costatazione di decadenza «di questi tempi ne’ quali, spento ogni raggio di virtú, sembra che l’invida maldicenza, l’ambizione, l’avidità delle ricchezze e degli onori, l’avarizia e tutte le umane scelleratezze abbiano date le ultime prove; sicché, a ragione, chi attentamente vi riflette, non piú dubiti il mondo esser retto e governato da spirito pravo e maligno, secondo che pure la divina Sapienza ci palesò, dicendo ch’era posseduto da Satan; che gli uomini per proprio istinto fin dalla adolescenza sono portati al male e che il mondo fosse positus in maligno». Sicché il Leit-Motiv parenetico e l’accento drammatico personale, storico, esistenziale, coincidono nella conclusione del proemio che fa consistere il merito dell’opera nel fatto che «altri, avendola innanzi agli occhi, prenda da sé guardia e abbiala per guida e scorta in passando un mare sí crudele e tempestoso, pieno di sirti e di perigliosi scogli, dove facilmente si potrebbe urtare e sommergersi».

E veramente in tal senso la contemporaneità (pur evidente nei problemi di fondo) del Giannone con l’epoca arcadico-razionalistica, da precisar poi nelle particolari condizioni della cultura meridionale piú ricca di meditazione filosofica (fra Caloprese e Gravina, per non dir di Vico), appare caratterizzata da una singolarissima forma di esperienza e di vibrazione drammatica che anima anche poeticamente la sua prosa spesso irta e massiccia, ma di cui forse il Bertelli finisce per esagerare l’involuta complicatezza e l’ascendenza barocca vera e propria. Non sarà in proposito da trascurare il fatto che il Giannone sottolineò l’importanza per la sua formazione mentale e letteraria dell’incontro con il De Angelis, petrarchista e arcade napoletano, e che egli espresse chiari dissensi rispetto al gusto oratorio barocco e sin al barocchismo africano di S. Agostino. Né del resto nell’epoca formativa del Giannone, e specie nell’ambito meridionale giuridico-filosofico, è dato trovare veri anticipi di spigliatezza di tipo preilluministico.

Ma certo, nella direzione drammatica soprattutto, la prosa e la pagina del Giannone raggiungono una grandiosità e una saldezza interna di rara efficacia e sopra tutte indicherei le pagine cupe, dolorose (fra drammaticità narrativa ed espressione solenne della riflessione morale e tragica), dell’arresto e della forzata partenza da Venezia, preparate dall’addensarsi, fra indizi rilevati e riflessioni amare, della macchinazione romana contro di lui, e rafforzate, dopo la rapida e turbinosa scena della cattura da parte degli zaffi veneziani, nella grandiosa meditazione sulla sproporzione di forze fra l’uomo onesto e le cabale gesuitiche e sulla instabilità delle umane vicende, con un grandioso crescendo di respiro universale ed esistenziale di forte carica morale e meditativa:

«Nel volgermi a man sinistra per entrare nel palazzo Pisani, che era poco discosto, ecco che da’ lati m’usciron due uomini innanzi, i quali postomi in mezzo, mi dissero che io ero preso; ed intanto, dando segno co’ loro fischi agli altri, mi vidi circondato da gran turba di birri, ché in Venezia chiamano “zaffi”. E dicendogli chi io era, e che forse prendevan abbaglio, e per uno avesser fatta preda di un altro, mi replicarono ch’essi ben mi conoscevano, e che bisognava venire dov’essi mi avrebber condotto; e frettolosamente traversato il campo di Sant’Angelo, e postomi sul capo un mantello, perché non fossi conosciuto, mi condusser per que’ stretti vicoli; senza sapere dov’io fossi, fin che non giungessi nella piazza di San Marco. Se ben di notte fossi cosí rapito, nulla dimanco, non essendo ancor le botteghe tutte chiuse, la gente curiosa, secondo che piú s’avanzava di cammino, piú cresceva, ed accorrendo da tutte le parti maggior numero di zaffi, mi vidi in mezzo la Piazza di San Marco, circondato da un immenso stuolo di vil plebaccia, che quasi empiva tutto quello spazio. Allora piú cose si ravvolgevano per la mia mente. Fra l’altro, pensando che finalmente la corte di Roma ed i gesuiti eran venuti a capo delle loro cabale ed insidie, dalle quali era difficile di poterne un uomo onesto scampare, ed a quali duri strazi ed altro infelice fine sarei stato io riserbato, considerava quanto instabili e volubili fossero le umane vicende e quanto folle era colui che in loro poneva speranza. Quella stessa piazza, dove sovente circondato dalla primaria nobiltà, a gara senatori ed altri gentiluomini concorrevano in rendermi onori e cortesia, la vedeva cambiata in uno sconcio e sozzo teatro, dove in mezzo a la vile e succida plebe era miserando spettacolo della loro compassione e forse anche de li loro scherni e derisione».

Mentre la robusta ispirazione morale sostiene certe vive rappresentazioni di giovani colleghi di avvocatura intriganti e pronti a sfruttare la minore attività di un luminare del foro napoletano (v. p. 47) o delle impudenti macchinazioni di preti e frati a suo danno (come quando, a causa del miracolo di S. Gennaro da lui posto in dubbio, «i frati ed i monaci, temendo non perciò gli venissero a mancare gli emolumenti che traggono da queste loro particolari devozioni, come tante baccanti cominciarono a declamare nelle loro chiese e nei confessionali, ecc.») e della anticristiana tecnica gesuitica e romana nei confronti degli avversari («cercandogli che mi risolvesse – il gesuita Sanfelice – se chi teneva quella credenza ch’egli inculcava, e che io ne’ precedenti articoli aveva già professato, era libero e franco, senza che se l’imputasse a peccato, di poter malignare il suo prossimo presso il principe e suoi supremi ministri per ruinarlo; se impunemente potea calunniarlo con imposture, falsità ed altre indegne ed infami arti; se era lecito di falsare passi, parole e storcere a maligni sensi il concetto de li scrittori, se contro il suo prossimo si potevano scagliare ingiurie gravi ed orrende, ecc.») o dei maneggi della corte viennese dominata dalla consorteria catalana e del comportamento di burocrati altissimi mossi solo dal loro «particulare»: dove l’amarezza del Giannone e la sua acutezza analitica raggiungono l’alta severità di un moralista di gran classe.

Moralista, storico e politico nel Giannone si uniscono in una eccezionale forza di testimonianza e presenza in una linea di lotta e di interpretazione essenziale alla storia complessa, drammatica della cultura e della società italiana.


1 G.L. Moncallero, L’Arcadia, I, Teoria d’Arcadia. La premessa antisecentista e classicista, Firenze, Leo S. Olschki, 1953.

2 Ranieri Schippisi, L’Arcadia, in Letteratura italiana. Le correnti, II, Milano, Marzorati, 1956, pp. 505-556.

3 Elena Sala Di Felice, Petrarca in Arcadia, Palermo, Palumbo, 1959.

4 Cesare Donati, Il Marchese Gioseffo Tedaldi uomo di cultura del XVIII secolo, in «Bollettino storico piacentino», 1954, pp. 65-76.

5 Bruno Maier, Faustina Maratti Zappi, donna e rimatrice di Arcadia, Roma, L’Orlando, 1954, p. 141.

6 Benedetto Marcello, Il teatro alla moda, prefazione e note di Andrea Angeli, Milano, Ricordi, 1956, pp. XX-130.

7 Significativi in tal senso (e da riconnettere alla direzione religiosa e morale di certi cotés dell’Arcadia settentrionale) sono i sonetti A Dio del Marcello (Venezia 1731): sonetti che rivelano un sincero impegno morale e religioso e una volontà di regolarità e dignità stilistica piuttosto rigida e priva di vera animazione poetica: ciò che doveva realizzarsi piuttosto nei Salmi del musicista, mentre nel Teatro alla moda risultano le migliori qualità dello scrittore sulla direzione della polemica, della satira, della parodia.

8 Scipione Maffei, Il consiglio politico alla repubblica veneta, a cura di Luigi Messedaglia, Verona, Edizioni di «Vita Veronese», 1955.

9 G. Quintarelli, Il pensiero politico di S. Maffei, in Studi maffeiani, Torino, 1909; A. Scolari, Il «Consiglio politico» di S. Maffei, in «Atti e memorie dell’Accademia di agricoltura, scienze e lettere di Verona», 1932, p. 37 ss.; L. Rossi, Un precursore di Montesquieu: S. Maffei, in Scritti vari di diritto pubblico, VI, Milano, 1941; il capitolo relativo al Consiglio nel rec. vol. di G. Silvestri, Un europeo del Settecento: S. Maffei, Treviso, 1954.

10 Arturo Pompeati, La «Merope» di Scipione Maffei, in «Bollettino della Società letteraria di Verona», 1953-1954, pp. 1-4.

11 Pietro Giannone, Vita scritta da lui medesimo, a cura di S. Bertelli, Milano 1960.

12 Nel «Giornale storico della letteratura italiana», vol. CXXXVI, 1959, p. 169 ss.